Questo mio articolo è apparso sulla rivista d'Arte e Cultura ARTAPP nell'ultimo numero sul tema del Convivio.
Qui trovate la versione integrale dell'articolo.
La convivialità affonda radici profonde che toccano l'uomo e lo legano fortemente all'animale.
"Gli animali annusano, odorano, osservano, leccano, e solo dopo si nutrono."
Buona lettura!Alimentazione e osservazione etologica: un contatto più profondo con noi stessi, con la società, con il vivere.
L’affrontare un tema quale il Convivio, Cum Vivere, dall’evidente etimologia di vivere insieme, diventa un
viaggio attraverso le tappe evolutive della socialità, diventa un parlare dell’interiorità
dell’uomo, della sua tradizione culturale, del suo legame a natura e anche della
stretta relazione con gli altri animali che con lui condividono il medesimo
atto alimentare, punto di incontro e di espressione culturale. La parola
propone un’identità tra l’atto del mangiare e quello del vivere. E poiché il
cibo è sostanza di vita, ciò che materialmente dà vita, esso si presta ad
essere assunto come metafora di esistenza. Cibo e vita assumono quindi un
significato inscindibile e si confondono l’uno con l’altro.
Il rito alimentare è sempre stato un momento di condivisione e di
socializzazione: nel convivio c’è trasmissione culturale, ci sono i racconti di
generazioni, c’è il desiderio di tramandare, di lasciare un segno, un
riconoscimento del sé in chi verrà dopo. Chi può dire di non aver vissuto ore
seduto attorno a un tavolo ad ascoltare racconti di nonni, zii, antichi saggi
di famiglia?
Negli animali la madre trasmette al piccolo i segreti della caccia,
insegna a sperimentare gusti alimentari nuovi, ad evitare quelli tossici. Gli
adulti insegnano le relazioni, le regole nel gioco, c’è una trasmissione di
comportamenti e segnali di comunicazione sociale fin dai primi giorni di vita.
Le società che ci hanno preceduto
hanno vissuto in modo sempre intenso il problema del reperimento del cibo, organizzandosi
collettivamente al fine della sopravvivenza. Allo stesso modo gli animali
sociali cooperano e cacciano insieme, si organizzano in caste sociali, condividono
l’attività di foraggiamento nel gruppo in modo da ridurre i rischi di predazione,
si sono evoluti e continuano ad evolvere tramite strategie per una
sopravvivenza volta alla comunità di cui sono parte.
Oggi il cibo si è caricato di tanti
significati, ha assunto caratteristiche, simboli, valori che trascendono la sua
realtà nutritiva: la preminenza, in tanti casi, della ‘circostanza’ in cui
avviene il consumo sulla ‘sostanza’ specifica dei cibo. E’ sufficiente pensare
a quegli alimenti che non hanno alcun valore nutrizionale ma che hanno assunto
nella società simboli afrodisiaci (come il tartufo), o quelli che vengono
collegati a stati di calma interiore ma che hanno proprietà eccitanti e quindi contrarie
rispetto a quelle desiderate (la così nota pausa caffè). Per non parlare del
significato che conferiamo al cibo per gli animali che abbiamo addomesticato: spesso
diventa arma di potere, gabbia mentale in cui intrappoliamo l’animale in una
relazione condizionata. E purtroppo non solo con i nostri animali, ma anche con
i nostri figli, di cui troppo spesso compriamo l’affetto in cambio di una caramella.
Abbiamo ricorrenze che impongono il
portare in tavola alimenti prestabiliti, il cappone a Natale, l’agnello a
Pasqua, per una semplice abitudine, un retaggio culturale: ma siamo sicuri che
non possa essere Natale se non c’è il cappone ripieno? La cultura della carne
non nasce da necessità di tipo biologico. E’ un tipico prodotto culturale, con
valenze simboliche, che si collega strettamente a riti e festività di tipo
religioso. Oggi l’industria della macellazione ha sconvolto il nostro rapporto
psicologico e simbolico con l’animale. Le tradizioni sono parte integrante e
fondamentale di una cultura, ma quando superano i limiti etici di un vivere in
equilibrio con natura - in riferimento agli allevamenti intensivi, all’utilizzo
di superficie agricola, con conseguente distruzione di zone forestali volta al
foraggiamento di quella che sarà la nostra pietanza, all’esasperato utilizzo di
prodotti chimici e di biotecnologie, al consumo di acqua (per avere un
chilogrammo di carne si consumano 100.000 litri di acqua, per produrre 1
chilogrammo di soia ne occorrono solo 2.000 litri) - siamo sicuri di non
volerne creare di nuove?
Le abitudini
alimentari di ogni comunità sono espressione di una cultura e se ci si
trasferisce da un paese all'altro è facile che si acquisisca una nuova cultura
del cibo. Quando i giovani cercopitechi maschi abbandonano il proprio gruppo d’origine
per cercare di accoppiarsi con femmine di un gruppo differente, acquisiscono
subito le consuetudini alimentari del nuovo gruppo, anche se sono completamente
differenti da quelle di origine. A dimostrare questo importante fenomeno di
trasmissione culturale fra primati non umani è una ricerca effettuata da Erica
van de Waal, dell'Università di St. Andrew. "La volontà dei maschi
immigrati di adottare le consuetudini dei loro nuovi gruppi ci ha sorpreso. Il
comportamento di imitazione sia dei piccoli naïve sia dei maschi che migrano rivela la
potenza e l'importanza dell'apprendimento sociale in questi primati selvatici,
estendendo anche a essi il conformismo che conosciamo così bene negli esseri
umani".
Ed è proprio
il conformismo, la globalizzazione, questa falsa tendenza e credenza di essere
tutti uniti e connessi, che viene utilizzata non per apprendere il nuovo, ma
per nascondersi dietro a tendine di asocialità, che ci spinge sempre più a
staccarci da una convivialità di ritrovo, di condivisione, di trasmissione. Non
esistono più barriere alimentari. Tutti mangiano tutto. Non esiste un ascolto
della propria necessità alimentare, di un richiamo ad un cibo che davvero
nutre, che davvero sazia. Non esiste più una scelta personale, dove l’animale
uomo si spinge alla ricerca del proprio pasto; il cibo è esposto in vetrina,
comprato, senza un vero contatto.
Nei primati
che utilizzano materia vegetale di prima qualità esiste una selettività del cibo,
che permette di sviluppare apprendimento, curiosità, memoria. Come riporta Roberto
Marchesini, filosofo ed etologo, “L’alimentazione vegetariana elettiva comporta
una selezione naturale sulle capacità intellettive, quindi sullo sviluppo del
cervello. Il grande sviluppo del cervello, comune all’uomo e allo scimpanzé,
indicano una filogenesi orientata alla ricerca di alimenti vegetali di alta
qualità, di alimenti dispersi nel territorio, di una stagionalità che
comportasse una precisa idea del tempo”.
Non è che continuando ad alimentarci,
servendoci nei supermercati, con cibi impacchettati e preconfezionati, senza
odore, con forma a scatola, senza la possibilità di usare tutti i nostri sensi,
inizieremo un’involuzione cerebrale? Non è che la selezione naturale ci porterà
verso una decrescita sensoriale?
Gli animali
annusano, odorano, osservano, leccano, e solo dopo si nutrono. Si fanno un’idea
precisa della storia di quello che stanno per mangiare, che sia frutto,
insetto, foglia o preda. Cos’è, dov’è, cosa ha mangiato a sua volta, da chi è
stato visto e scartato. La società umana ci ha staccati da tutto questo. Non
sappiamo più da dove viene il nostro cibo, che cosa ha vissuto quello che
abbiamo nel piatto, a quale Regno appartenga (animale, vegetale,…). Spesso
quello che finisce nei nostri piatti, che compriamo distrattamente e serviamo
sulle nostre tavole, ha un aspetto così lontano da quello che era la sua forma
originaria: un mix di ingredienti, di cui non sappiamo l’odore, né la forma
d’origine. I bambini non sanno da dove arrivano le verdure, non sanno che
maturano sottoterra, come le patate, che crescono aggrappate ai rami, come i
pomodori, o ancora che strisciano a contatto con il suolo, come le zucche. Non
sanno che la cotoletta era un animale vivo e peloso, con due occhi e una bocca.
Il nostro tempo ha come ingrediente segreto comune, senza barriere
territoriali, come carburante alimentare, il petrolio. La lista degli
ingredienti necessari per creare gli aromi artificiali è pressoché infinita.
Gli odori, a cui la memoria è fortemente collegata, sono forse l’arma più
potente delle industrie del cibo per fidelizzare i consumatori. Nell’infanzia
sono i sapori a lasciare un ricordo indelebile e proprio per questo l’obiettivo
più ambito delle catene dei fast food sono i bambini. Oltre all’aroma però, è
necessario ricreare una sensazione, una percezione tattile anche all’interno
della bocca: per questo oggi si ricorre alla Reologia, una branca della fisica
che studia il flusso e la deformazione dei materiali. Esistono “bocche
meccaniche” in grado di elaborare dati provenienti da svariate sonde, che
misurano le proprietà reologiche di un cibo quali scorrimento, punto di
rottura, densità, croccantezza, masticabilità, viscosità, grumosità, gommosità,
duttilità, scivolosità, levigatezza, sofficità, umidità succosità,
spalmabilità, elasticità e adesività.
Le mamme non sanno cosa si nasconde
dentro le merendine con cui fiduciosamente deliziano i propri bambini. Le
stesse mamme non sanno che i cosiddetti aromi naturali e i coloranti delle
merendine confezionate, della pasticceria, dei gelati, delle bibite, delle
caramelle, dello zucchero in generale, sono sottoprodotti del catrame. La mamma
si fida. Non sceglie.
Gli alimenti
gratificano oltre al palato anche il bisogno di appartenenza, permettono di
sentirsi sicuri, parte di un gruppo, omologati a una marca. Si perde il gusto
reale dell’alimento, perché l’alimento ha perso la sua naturalità, la sua proprietà
intrinseca; tutto è standardizzato, gli imballaggi così come i sapori, i gusti,
sia a livello organolettico appunto che a livello nutrizionale. Tutto è
uniformato. Non esiste più la stagionalità dell’alimento, come neppure la
conoscenza dell’origine di provenienza (non intesa come paese, ma come luogo).
E’ un
convivio che unisce tutti ma allontana dalla vera essenza del vivere.
Ci si è
allontanati dal gustare veramente e sensorialmente i cibi. Tant’è che sempre
più spesso si sente parlare di cene conviviali in cui si fa esperienza nel
mangiare con tutti i sensi. Un bene. Ma possibile che siamo costretti a pagare
per mangiare ritrovando un contatto profondo con il cibo?
Mangiamo con
la bocca. Ma c’è un gusto che inizia negli occhi, che attraversa le narici, che
esulta tra le dita per esplodere sulle labbra. Le migliaia di neuroni sparse
sui nostri organi di senso al contatto con l’alimento gioiscono. Noi siamo
abituati ad ingurgitare, portando alla bocca il cibo con attrezzi metallici che
ancora di più ci separano dall’essenza stessa del nutrimento. Siamo stati
portati a ricercare il colore di un cibo che sia pulito, igienico, bianco.
Sbianchiamo le farine, lo zucchero, la carne. Ricerchiamo il bianco e lo
otteniamo sottoponendo gli alimenti a processi depauperanti: gli
oligoelementi, i minerali, le proteine, gli enzimi del succo zuccherino scuro
di partenza e delle farine si perdono durante la purificazione. E per essere
assorbiti rubano al nostro organismo quelle stesse sostanze che crediamo siano
loro a fornirci, quali vitamine e sali minerali (calcio e cromo). Allo stesso
modo siamo attratti da qualsiasi alimento e bevanda che scintilli, rosso
rubino, verde scintillante, giallo fluorescente: i frutti sono lucidati e
ricoperti di cere, il tuorlo delle uova più è rosso più crediamo ci nutra, le
bibite e i cocktail sono mix paurosi di veleni colorati, le caramelle, i
leccalecca, ... In natura sopra a tutti il bianco e il rosso sono i due colori
che mettono in allarme gli animali. L'aposematismo è la colorazione di una parte del
corpo di un animale ai fini di avvertimento contro
possibili predatori.
Gli animali
che utilizzano colori aposematici sono tossici o velenosi, oppure hanno semplicemente
un sapore sgradevole per le specie che potrebbero utilizzarli come nutrimento. Dai
vari funghi del Genere Amanita, ai serpenti corallo, al Dendrobates pumilio, rana velenosa i cui colori sgargianti servono
come avvertimento per tutti i predatori: ne identificano infatti l’elevatissima
tossicità.
Eppure noi ricerchiamo e ricreiamo questi colori
per essere sempre più candidi o splendenti.
L’alimentarsi spinge ad un forte richiamo alla propria interiorità,
mette in relazione la saggezza del proprio corpo con l’ansia del nuovo, la
prudenza con la curiosità. Gli animali conoscono le proprietà terapeutiche
delle erbe selvatiche, si auto curano scegliendo e mangiando le piante adatte.
Da uno studio effettuato dal primatologo Michael A. Huffman è stato rilevato
che gli scimpanzé si curano da alcune infezioni parassitarie succhiando il
succo amaro di Vernonia amigdalina,
pianta in genere non appetita da queste scimmie, ma ampiamente utilizzata in
Africa per il trattamento delle parassitosi e delle turbe gastrointestinali
negli uomini e nel bestiame. E’ noto che i gatti masticano le foglie giovani di
certe graminacee come emetico, per spurgare il loro apparato digerente. In
India, Ungulati e Primati ingeriscono la
corteccia di Holarrhena antidysenterica
a scopo antidissenterico. E da queste ricerche sta nascendo una disciplina
specifica, la Zoofarmacognosia, una branca dell' Etologia (studio del
comportamento animale) che ha caratteristiche multidisciplinari, essendo
implicate la Botanica, la Farmacologia, l' Antropologia, l' Ecologia, la
Parassitologia e la Fitochimica, destinata proprio all’osservazione
etologica in rapporto alla ricerca farmacologica.
Oggi l'uomo sta paradossalmente imparando dagli animali ciò che
probabilmente un tempo era perfettamente in grado di fare!
Dagli animali impariamo anche la terapia del digiuno, come
detossificazione per eliminare le tossine accumulate con i processi metabolici,
una pratica di purificazione del corpo che con la tradizione religiose diviene
pratica catartica, per un viaggio profondo nel proprio corpo come tempio dell’anima
al fine di un rinnovamento e una rinascita spirituale.
Mi chiedo se sia veramente possibile una rivoluzione
devolutiva, che ci permetta, osservando animali e natura, a tornare ad avere un
contatto più intimo con il nostro vivere il cibo e il vivere insieme.
Movimenti quali Slow Food, Slow Movement ci fanno
ben sperare… ma forse la rivoluzione dovrebbe affondare radici ancora più
profonde.
Il convivio è momento di coesione, il gruppo è vivo, i commensali - dal termine latino cum mensal che, tradotto, rimanda ad una "condivisione della tavola/della mensa", in origine in riferimento alla condivisione
dello stesso cibo tra animali di specie differenti, dopo che i predatori avevano concluso il loro pasto – raccontano: c’è un vociare
animato, un’emozione interiore che fa scaldare le posate di chi le tiene, le
parole volano, gli animi divorano.
Il convivio può essere anche momento di unione, il gruppo è in scambio
dialogico, esiste grande connessione tra coloro che siedono: c’è una fitta rete che li lega, tra di loro e
con il cibo che mangiano, che lentamente portano alla bocca, nel silenzio,
ascoltando il lento masticare di se stessi e degli altri.
Chi volontariamente sceglie di fare esperienza di un pasto nel
silenzio, in un silenzio non forzato, magari condiviso? Forse è proprio in
quell’atto che sta il vero convivio, il significato profondo della parola, il
vivere insieme, il fare esperienza insieme, l’ascoltare se stessi e l’altro.
Nel silenzio e nell’ascolto.
E dagli animali proprio questo imparo ogni giorno. L’essere presenti.
L’esserci senza esserci. L’immagine della mia gatta, Tippy, che viveva in
giardino, libera di andare e venire come e quando desiderava, ed ogni sera, già
sazia dalla sua cena, si sedeva sul davanzale della finestra della cucina e
condivideva la nostra cena. Silenziosa e presente.