lunedì 19 agosto 2013

Buono da Mangiare


Questo mio articolo è apparso sulla rivista d'Arte e Cultura ARTAPP nell'ultimo numero sul tema del Convivio.
Qui trovate la versione integrale dell'articolo.
La convivialità affonda radici profonde che toccano l'uomo e lo legano fortemente all'animale.
"Gli animali annusano, odorano, osservano, leccano, e solo dopo si nutrono."
Buona lettura!


Alimentazione e osservazione etologica: un contatto più profondo con noi stessi, con la società, con il vivere.

L’affrontare un tema quale il Convivio, Cum Vivere, dall’evidente etimologia di vivere insieme, diventa un viaggio attraverso le tappe evolutive della socialità, diventa un parlare dell’interiorità dell’uomo, della sua tradizione culturale, del suo legame a natura e anche della stretta relazione con gli altri animali che con lui condividono il medesimo atto alimentare, punto di incontro e di espressione culturale. La parola propone un’identità tra l’atto del mangiare e quello del vivere. E poiché il cibo è sostanza di vita, ciò che materialmente dà vita, esso si presta ad essere assunto come metafora di esistenza. Cibo e vita assumono quindi un significato inscindibile e si confondono l’uno con l’altro. 

Il rito alimentare è sempre stato un momento di condivisione e di socializzazione: nel convivio c’è trasmissione culturale, ci sono i racconti di generazioni, c’è il desiderio di tramandare, di lasciare un segno, un riconoscimento del sé in chi verrà dopo. Chi può dire di non aver vissuto ore seduto attorno a un tavolo ad ascoltare racconti di nonni, zii, antichi saggi di famiglia?
Negli animali la madre trasmette al piccolo i segreti della caccia, insegna a sperimentare gusti alimentari nuovi, ad evitare quelli tossici. Gli adulti insegnano le relazioni, le regole nel gioco, c’è una trasmissione di comportamenti e segnali di comunicazione sociale fin dai primi giorni di vita.

Le società che ci hanno preceduto hanno vissuto in modo sempre intenso il problema del reperimento del cibo, organizzandosi collettivamente al fine della sopravvivenza. Allo stesso modo gli animali sociali cooperano e cacciano insieme, si organizzano in caste sociali, condividono l’attività di foraggiamento nel gruppo in modo da ridurre i rischi di predazione, si sono evoluti e continuano ad evolvere tramite strategie per una sopravvivenza volta alla comunità di cui sono parte.
Oggi il cibo si è caricato di tanti significati, ha assunto caratteristiche, simboli, valori che trascendono la sua realtà nutritiva: la preminenza, in tanti casi, della ‘circostanza’ in cui avviene il consumo sulla ‘sostanza’ specifica dei cibo. E’ sufficiente pensare a quegli alimenti che non hanno alcun valore nutrizionale ma che hanno assunto nella società simboli afrodisiaci (come il tartufo), o quelli che vengono collegati a stati di calma interiore ma che hanno proprietà eccitanti e quindi contrarie rispetto a quelle desiderate (la così nota pausa caffè). Per non parlare del significato che conferiamo al cibo per gli animali che abbiamo addomesticato: spesso diventa arma di potere, gabbia mentale in cui intrappoliamo l’animale in una relazione condizionata. E purtroppo non solo con i nostri animali, ma anche con i nostri figli, di cui troppo spesso compriamo l’affetto in cambio di una caramella.
Abbiamo ricorrenze che impongono il portare in tavola alimenti prestabiliti, il cappone a Natale, l’agnello a Pasqua, per una semplice abitudine, un retaggio culturale: ma siamo sicuri che non possa essere Natale se non c’è il cappone ripieno? La cultura della carne non nasce da necessità di tipo biologico. E’ un tipico prodotto culturale, con valenze simboliche, che si collega strettamente a riti e festività di tipo religioso. Oggi l’industria della macellazione ha sconvolto il nostro rapporto psicologico e simbolico con l’animale. Le tradizioni sono parte integrante e fondamentale di una cultura, ma quando superano i limiti etici di un vivere in equilibrio con natura - in riferimento agli allevamenti intensivi, all’utilizzo di superficie agricola, con conseguente distruzione di zone forestali volta al foraggiamento di quella che sarà la nostra pietanza, all’esasperato utilizzo di prodotti chimici e di biotecnologie, al consumo di acqua (per avere un chilogrammo di carne si consumano 100.000 litri di acqua, per produrre 1 chilogrammo di soia ne occorrono solo 2.000 litri) - siamo sicuri di non volerne creare di nuove?

Le abitudini alimentari di ogni comunità sono espressione di una cultura e se ci si trasferisce da un paese all'altro è facile che si acquisisca una nuova cultura del cibo. Quando i giovani cercopitechi maschi abbandonano il proprio gruppo d’origine per cercare di accoppiarsi con femmine di un gruppo differente, acquisiscono subito le consuetudini alimentari del nuovo gruppo, anche se sono completamente differenti da quelle di origine. A dimostrare questo importante fenomeno di trasmissione culturale fra primati non umani è una ricerca effettuata da Erica van de Waal, dell'Università di St. Andrew. "La volontà dei maschi immigrati di adottare le consuetudini dei loro nuovi gruppi ci ha sorpreso. Il comportamento di imitazione sia dei piccoli naïve sia dei maschi che migrano rivela la potenza e l'importanza dell'apprendimento sociale in questi primati selvatici, estendendo anche a essi il conformismo che conosciamo così bene negli esseri umani".
Ed è proprio il conformismo, la globalizzazione, questa falsa tendenza e credenza di essere tutti uniti e connessi, che viene utilizzata non per apprendere il nuovo, ma per nascondersi dietro a tendine di asocialità, che ci spinge sempre più a staccarci da una convivialità di ritrovo, di condivisione, di trasmissione. Non esistono più barriere alimentari. Tutti mangiano tutto. Non esiste un ascolto della propria necessità alimentare, di un richiamo ad un cibo che davvero nutre, che davvero sazia. Non esiste più una scelta personale, dove l’animale uomo si spinge alla ricerca del proprio pasto; il cibo è esposto in vetrina, comprato, senza un vero contatto.

Nei primati che utilizzano materia vegetale di prima qualità esiste una selettività del cibo, che permette di sviluppare apprendimento, curiosità, memoria. Come riporta Roberto Marchesini, filosofo ed etologo, “L’alimentazione vegetariana elettiva comporta una selezione naturale sulle capacità intellettive, quindi sullo sviluppo del cervello. Il grande sviluppo del cervello, comune all’uomo e allo scimpanzé, indicano una filogenesi orientata alla ricerca di alimenti vegetali di alta qualità, di alimenti dispersi nel territorio, di una stagionalità che comportasse una precisa idea del tempo”.
Non è che continuando ad alimentarci, servendoci nei supermercati, con cibi impacchettati e preconfezionati, senza odore, con forma a scatola, senza la possibilità di usare tutti i nostri sensi, inizieremo un’involuzione cerebrale? Non è che la selezione naturale ci porterà verso una decrescita sensoriale?

Gli animali annusano, odorano, osservano, leccano, e solo dopo si nutrono. Si fanno un’idea precisa della storia di quello che stanno per mangiare, che sia frutto, insetto, foglia o preda. Cos’è, dov’è, cosa ha mangiato a sua volta, da chi è stato visto e scartato. La società umana ci ha staccati da tutto questo. Non sappiamo più da dove viene il nostro cibo, che cosa ha vissuto quello che abbiamo nel piatto, a quale Regno appartenga (animale, vegetale,…). Spesso quello che finisce nei nostri piatti, che compriamo distrattamente e serviamo sulle nostre tavole, ha un aspetto così lontano da quello che era la sua forma originaria: un mix di ingredienti, di cui non sappiamo l’odore, né la forma d’origine. I bambini non sanno da dove arrivano le verdure, non sanno che maturano sottoterra, come le patate, che crescono aggrappate ai rami, come i pomodori, o ancora che strisciano a contatto con il suolo, come le zucche. Non sanno che la cotoletta era un animale vivo e peloso, con due occhi e una bocca. Il nostro tempo ha come ingrediente segreto comune, senza barriere territoriali, come carburante alimentare, il petrolio. La lista degli ingredienti necessari per creare gli aromi artificiali è pressoché infinita. Gli odori, a cui la memoria è fortemente collegata, sono forse l’arma più potente delle industrie del cibo per fidelizzare i consumatori. Nell’infanzia sono i sapori a lasciare un ricordo indelebile e proprio per questo l’obiettivo più ambito delle catene dei fast food sono i bambini. Oltre all’aroma però, è necessario ricreare una sensazione, una percezione tattile anche all’interno della bocca: per questo oggi si ricorre alla Reologia, una branca della fisica che studia il flusso e la deformazione dei materiali. Esistono “bocche meccaniche” in grado di elaborare dati provenienti da svariate sonde, che misurano le proprietà reologiche di un cibo quali scorrimento, punto di rottura, densità, croccantezza, masticabilità, viscosità, grumosità, gommosità, duttilità, scivolosità, levigatezza, sofficità, umidità succosità, spalmabilità, elasticità e adesività.
Le mamme non sanno cosa si nasconde dentro le merendine con cui fiduciosamente deliziano i propri bambini. Le stesse mamme non sanno che i cosiddetti aromi naturali e i coloranti delle merendine confezionate, della pasticceria, dei gelati, delle bibite, delle caramelle, dello zucchero in generale, sono sottoprodotti del catrame. La mamma si fida. Non sceglie.
Gli alimenti gratificano oltre al palato anche il bisogno di appartenenza, permettono di sentirsi sicuri, parte di un gruppo, omologati a una marca. Si perde il gusto reale dell’alimento, perché l’alimento ha perso la sua naturalità, la sua proprietà intrinseca; tutto è standardizzato, gli imballaggi così come i sapori, i gusti, sia a livello organolettico appunto che a livello nutrizionale. Tutto è uniformato. Non esiste più la stagionalità dell’alimento, come neppure la conoscenza dell’origine di provenienza (non intesa come paese, ma come luogo).
E’ un convivio che unisce tutti ma allontana dalla vera essenza del vivere.
Ci si è allontanati dal gustare veramente e sensorialmente i cibi. Tant’è che sempre più spesso si sente parlare di cene conviviali in cui si fa esperienza nel mangiare con tutti i sensi. Un bene. Ma possibile che siamo costretti a pagare per mangiare ritrovando un contatto profondo con il cibo?

Mangiamo con la bocca. Ma c’è un gusto che inizia negli occhi, che attraversa le narici, che esulta tra le dita per esplodere sulle labbra. Le migliaia di neuroni sparse sui nostri organi di senso al contatto con l’alimento gioiscono. Noi siamo abituati ad ingurgitare, portando alla bocca il cibo con attrezzi metallici che ancora di più ci separano dall’essenza stessa del nutrimento. Siamo stati portati a ricercare il colore di un cibo che sia pulito, igienico, bianco. Sbianchiamo le farine, lo zucchero, la carne. Ricerchiamo il bianco e lo otteniamo sottoponendo gli alimenti a processi depauperanti: gli oligoelementi, i minerali, le proteine, gli enzimi del succo zuccherino scuro di partenza e delle farine si perdono durante la purificazione. E per essere assorbiti rubano al nostro organismo quelle stesse sostanze che crediamo siano loro a fornirci, quali vitamine e sali minerali (calcio e cromo). Allo stesso modo siamo attratti da qualsiasi alimento e bevanda che scintilli, rosso rubino, verde scintillante, giallo fluorescente: i frutti sono lucidati e ricoperti di cere, il tuorlo delle uova più è rosso più crediamo ci nutra, le bibite e i cocktail sono mix paurosi di veleni colorati, le caramelle, i leccalecca, ... In natura sopra a tutti il bianco e il rosso sono i due colori che mettono in allarme gli animali. L'aposematismo è la colorazione di una parte del corpo di un animale ai fini di avvertimento contro possibili predatori.
Gli animali che utilizzano colori aposematici sono tossici o velenosi, oppure hanno semplicemente un sapore sgradevole per le specie che potrebbero utilizzarli come nutrimento. Dai vari funghi del Genere Amanita, ai serpenti corallo, al Dendrobates pumilio, rana velenosa i cui colori sgargianti servono come avvertimento per tutti i predatori: ne identificano infatti l’elevatissima tossicità.
Eppure noi ricerchiamo e ricreiamo questi colori per essere sempre più candidi o splendenti.

L’alimentarsi spinge ad un forte richiamo alla propria interiorità, mette in relazione la saggezza del proprio corpo con l’ansia del nuovo, la prudenza con la curiosità. Gli animali conoscono le proprietà terapeutiche delle erbe selvatiche, si auto curano scegliendo e mangiando le piante adatte. Da uno studio effettuato dal primatologo Michael A. Huffman è stato rilevato che gli scimpanzé si curano da alcune infezioni parassitarie succhiando il succo amaro di Vernonia amigdalina, pianta in genere non appetita da queste scimmie, ma ampiamente utilizzata in Africa per il trattamento delle parassitosi e delle turbe gastrointestinali negli uomini e nel bestiame. E’ noto che i gatti masticano le foglie giovani di certe graminacee come emetico, per spurgare il loro apparato digerente. In India, Ungulati e Primati  ingeriscono la corteccia di Holarrhena antidysenterica a scopo antidissenterico. E da queste ricerche sta nascendo una disciplina specifica, la Zoofarmacognosia, una branca dell' Etologia (studio del comportamento animale) che ha caratteristiche multidisciplinari, essendo implicate la Botanica, la Farmacologia, l' Antropologia, l' Ecologia, la Parassitologia e la Fitochimica, destinata proprio all’osservazione etologica in rapporto alla ricerca farmacologica. Oggi l'uomo sta paradossalmente imparando dagli animali ciò che probabilmente un tempo era perfettamente in grado di fare!
Dagli animali impariamo anche la terapia del digiuno, come detossificazione per eliminare le tossine accumulate con i processi metabolici, una pratica di purificazione del corpo che con la tradizione religiose diviene pratica catartica, per un viaggio profondo nel proprio corpo come tempio dell’anima al fine di un rinnovamento e una rinascita spirituale.

Mi chiedo se sia veramente possibile una rivoluzione devolutiva, che ci permetta, osservando animali e natura, a tornare ad avere un contatto più intimo con il nostro vivere il cibo e il vivere insieme.
Movimenti quali Slow Food, Slow Movement ci fanno ben sperare… ma forse la rivoluzione dovrebbe affondare radici ancora più profonde.

Il convivio è momento di coesione, il gruppo è vivo, i commensali - dal termine latino cum mensal che, tradotto, rimanda ad una "condivisione della tavola/della mensa", in origine in riferimento alla condivisione dello stesso cibo tra animali di specie differenti, dopo che i predatori avevano concluso il loro pasto raccontano: c’è un vociare animato, un’emozione interiore che fa scaldare le posate di chi le tiene, le parole volano, gli animi divorano.
Il convivio può essere anche momento di unione, il gruppo è in scambio dialogico, esiste grande connessione tra coloro che siedono:  c’è una fitta rete che li lega, tra di loro e con il cibo che mangiano, che lentamente portano alla bocca, nel silenzio, ascoltando il lento masticare di se stessi e degli altri.
Chi volontariamente sceglie di fare esperienza di un pasto nel silenzio, in un silenzio non forzato, magari condiviso? Forse è proprio in quell’atto che sta il vero convivio, il significato profondo della parola, il vivere insieme, il fare esperienza insieme, l’ascoltare se stessi e l’altro. Nel silenzio e nell’ascolto.

E dagli animali proprio questo imparo ogni giorno. L’essere presenti. L’esserci senza esserci. L’immagine della mia gatta, Tippy, che viveva in giardino, libera di andare e venire come e quando desiderava, ed ogni sera, già sazia dalla sua cena, si sedeva sul davanzale della finestra della cucina e condivideva la nostra cena. Silenziosa e presente.